Giuseppe Parini (1938)

Giuseppe Parini, Il Giorno e le Odi, passi scelti del Giorno con il commento di Domenico Guerri, introduzione generale e commento alle Odi di Walter Binni, Firenze, Vallecchi («Biblioteca di classici italiani»), 1938. Riproduciamo l’introduzione. È il primo scritto settecentesco di Binni.

INTRODUZIONE

Giuseppe Parini nacque a Bosisio, paesino di Lombardia, sulle rive del Lago Pusiano, da Francesco ed Angela Maria Carpani, nel maggio del 1729. La sua origine popolana e paesana contribuí a dare alla sua vita un tono di onesta e coscienziosa conquista e non si capirebbe la sua serietà di cittadino se non si pensasse proprio al carattere che avevano ai suoi occhi la città e la civiltà. È vivo sempre in lui, uomo, quel senso sicuro delle cose primarie che è proprio dei temperamenti contadini. Presto, nel 1738, fu inviato a Milano presso la zia, vedova Lattuada, perché studiasse alle scuole Arcimbolde, tenute dai Barnabiti, dove, dal registro di scuola che resta, non sembra che risaltasse per eccessiva diligenza. Morta la zia nel 1741, ne raccolse una piccola eredità, lasciata a patto che si facesse prete. La larghezza con cui il Settecento accoglieva gli ecclesiastici spiega come il Parini si sia, senza averne vocazione, sottoposto a quella dura condizione. Uomo di alto senso morale, condusse la sua vita con dignità che, pur non disdicendo alla sua qualità di prete, si regolava però essenzialmente su di una morale completamente laica. Non vi sono in lui tracce di contrasti dolorosi e di ribellioni: si può dire che egli ignorò nella sua opera e nel suo pensiero la sua qualità di prete che probabilmente riconduceva solo al suo aspetto di mestiere, del resto assai comune nel Settecento.

Introdotto da Ambrogio Fioroni nella società letteraria milanese, non tardò a dare prove delle sue qualità poetiche pubblicando Alcune poesie di Ripiano Eupilino nel 1752, con un nome sceltosi, secondo l’uso arcadico, dal paese natale. E contemporaneamente entrò nell’Accademia dei Trasformati, introdotto dal Passeroni, accademia linguistica, attaccata fortemente alla tradizione cinquecentesca, in cui si adunavano coloro che volevano ridare alla letteratura solidi caratteri di tradizione classica e di struttura antiarcadica e nazionale. Di fronte le sorgeva la società dei Pugni e il cenacolo del «Caffè», progressista, europeista, antiletterario.

Nello stesso anno in cui veniva ordinato sacerdote (1754) il Parini entrava come precettore nella casa del duca Gabrio Serbelloni, dove visse in mezzo a ristrettezze economiche, ad umiliazioni che gli diedero quel fondo di umanità risentita e pronta a sollevarsi ad ogni segno di dignità oppressa. Il precettore era in fondo il primo dei servitori di casa, ma la sua posizione restava ambigua tra servitore e pari, lo poneva in imbarazzi continui. Certo è che davanti ad una scena piú disgustosa (la duchessa aveva lasciato andare due schiaffi, senza nessuna ragione, ad una ragazza sua dipendente) il Parini reagí e si allontanò, nel 1762, da quella casa per sostenere una miseria almeno libera.

Dopo questa essenziale esperienza, che formò il lato sensibile e reattivo del liberalismo pariniano, il poeta pubblicò nel ’63 il Mattino, nel ’65 il Meriggio. Chi aiutò il Parini e gli diede la possibilità di guadagnarsi la vita con decoro e soprattutto con soddisfazione del suo spirito di educatore fu il governo austriaco della Lombardia: il ministro Firmian gli diede nel ’68 da dirigere la «Gazzetta di Milano», giornale ufficiale della provincia lombarda, e nel ’69 lo nominò professore di eloquenza, cioè di letteratura, alle scuole Palatine, da cui passò a Brera nel ’76. Riuniva cosí due funzioni a lui adattissime: educatore attraverso le lezioni e il giornale. Oltre a ciò aveva incarichi di poeta teatrale (compose il libretto Ascanio in Alba musicato dal Mozart, per le nozze dell’arciduca Ferdinando e Maria Beatrice d’Este). Infine nel ’91 fu nominato soprintenderne alle scuole pubbliche. Pur mantenendo un certo carattere di poeta cortigiano, risalta in lui l’educatore, il carattere di una coscienza tipicamente civile e riformista, rigidamente fissa su alcuni punti di dignità essenziale, ma lontana da ogni estremismo: una coscienza liberale che trovava il suo compito anche sotto i governi assoluti e che si rifiutava d’altronde di aderire alle soluzioni estremistiche.

Difatti nel ’96, quando scesero i francesi, egli entrò nella Municipalità di Milano, secondo i suoi principi liberali e democratici, facendo parte del terzo comitato addetto ai teatri, agli archivi, alla educazione, ma appena vide i metodi antiliberali e personalistici dei nuovi padroni e soprattutto quando vide che la Municipalità accettava la costituzione dal di fuori invece di crearsela da sé secondo le proprie esigenze, si dimise e si ritirò a vita privata.

L’atteggiamento di fronte alla rivoluzione francese è quello che meglio limita la sostanziale posizione di due nostri grandi: l’Alfieri e il Parini. Il primo sdegnava lo scatenamento del popolaccio, il secondo si ribellava in nome di una coscienza autonomistica e liberale. Ambedue negavano la Rivoluzione in quanto essa aveva di ineducativo, di violento, e si riattaccavano ad un senso della libertà in realtà piú maturo e profondo.

È sotto l’impressione amara degli eccessi della rivoluzione che si spiega come il Parini, un giorno prima della sua morte, dettasse un sonetto di letizia per il ritorno degli Austriaci in Milano. Moriva a settant’anni, nel 1799.

2. – La vita del Parini si svolge nella seconda metà del Settecento e coincide con tutto un largo movimento di pensiero e di sentimenti che in Lombardia trovava la sua migliore condizione di sviluppo. L’illuminismo trapiantato in Italia prendeva l’aspetto piú integrale di rinnovamento della coscienza italiana. Un’ondata di europeismo, non piú quello avventuriero di Casanova, coincideva con nuovi bisogni di maggiore serietà morale e quindi di reazione al mondo sfumato, scarsamente inciso del primo Settecento. Come sempre avviene nella storia, il rinnovamento non toglie che i nuovi uomini abbiano molteplici legami con il mondo vecchio e che tanto gusto arcadico permanga anche nella rivolta di un Gozzi e di un Baretti. In Italia era mancato un contrappeso all’aridità arcadica, una virile attività di mercanti, di avventurieri coraggiosi, di pirati e di fanatici come ebbe ad esempio, l’Inghilterra. E quindi l’inizio di un rinnovamento aveva soprattutto bisogno di un rinvigorimento dell’uomo nella sua piú schietta naturalità. L’Alfieri e il romanticismo porteranno, in parte, l’affermazione di una violenta vita psicologica, invece il Parini e i suoi contemporanei lombardi ebbero soprattutto di vista la fondazione di un nuovo interesse civile, civico addirittura, l’ossatura dell’uomo in quanto, cittadino. I limiti dell’uomo Parini sono un po’ quelli del suo ambiente: moralità civica, coscienzioso utilitarismo, assoluta mancanza di impeti affermativi e di approfondimenti della coscienza in senso religioso.

Ma entro queste barriere, quanta vita sociale e quanto desiderio di rinnovare, di educare, di attuare una civiltà salda ed umana!

L’aria di concreta civiltà, di illuminismo e di problemismo (poter risolvere ogni problema al lume della ragione, poter far assurgere ogni particolare problema razionale) che circola nella Lombardia e che prepara la classe dirigente del regno italico prima, e poi del risorgimento lombardo, avviva anche l’azione civile del Parini.

Il moto riformatore lombardo, iniziato economicamente sotto Carlo VI, intellettualmente si afferma nel periodo teresiano, dovuto ad una minoranza di borghesi e di nobili borghesi (quei nobili cioè che stanchi della poltroneria tradizionale si davano al lavoro, al potenziamento delle loro terre e si adeguavano cosí alla attività borghese) e contraddistinta da una misura, da un buon senso che favoriva una serie di sfumature tra vecchio e nuovo che ritroviamo nel Parini. La moderazione di Maria Teresa, che sostanzialmente favoriva le condizioni atte a sostenere un risveglio culturale lombardo, fece sí che in Lombardia il nuovo movimento non avesse caratteri aspri di odio e il chiuso inevitabile fanatismo che nasce nei periodi di oppressione – spinta ad agire e velo allo studio della complessa realtà – e che un uomo come il Parini potesse collaborare sinceramente col governo austriaco, come educatore e come giornalista, senza sentire menomata la sua coerenza di uomo nuovo. È perciò in questo ambiente moderato e progressista, dove una classe borghese e di aristocrazia borghese veniva a soppiantare di fatto la vecchia decaduta nobiltà, ornamentale e fastidiosa, che si giustifica e si valorizza la figura morale di Giuseppe Parini.

Cosa porta il Parini a questo movimento? Una coscienza chiara e l’impegno di una vita sofferta nell’affermazione della dignità umana. Mentre gli economisti e i politici progettavano riforme, costituzioni, il Parini difendeva i diritti piú essenziali dell’uomo fino ad arrivare alla polemica particolare, come attraverso qualche articolo della «Gazzetta di Milano» e soprattutto attraverso Odi come la Musica o il Bisogno.

E il suo Giorno ha chiaramente un intento di satira (ne parliamo fuori della sua arte) della classe decaduta e ingombrante, e porta in piú il bisogno della cultura di una vita attiva, e d’un rinnovamento morale, di un risveglio di interesse. L’illuministico interesse alla vita, piena di problemi da affrontarsi e risolversi, si contrappone alla noia frivola della vecchia classe in disfacimento. Una precisa coscienza della decadenza nobiliare sorregge storicamente la satira del Giorno, non satira di temperamento plebeo, ma coscienza della mancata funzione della nobiltà: difatti il Parini contrappone sempre i vecchi nobili guerrieri, attivi, in cui un diritto corrispondeva ad un’effettiva funzione civile, agli imbelli discendenti parassiti di un mondo in cui al loro titolo non corrisponde piú nessun compito. Inoltre nelle idee riformatrici lombarde raramente si insinuavano motivi tipicamente umanitari (Beccaria) e democratici: ad essi per la sua esperienza e per la sua sensibilità il Parini fu rivolto e per primo li portò attraverso il Giorno nell’ambiente nuovo come esigenza imprescindibile di qualsiasi rinnovamento liberale. In quel movimento che basava duraturamente in Lombardia le possibilità di un risorgimento nazionale, il Parini portava soprattutto il senso della dignità umana, dei diritti umani, tutto un umanitarismo che ebbe tra l’altro il grande merito di far accettare le idee della rivoluzione francese non come una semplice importazione dall’estero, ma quasi come lo sviluppo di una tradizione già viva nella coscienza italiana. Di fronte al risorgimento nazionale, che del resto si nutrí inizialmente non tanto di immediato nazionalismo quanto di liberalismo, il Parini rappresentò, piú che un’affermazione di indipendenza e di unità, un richiamo ad una serietà e ad una dignità e a un giusto equilibrio fra europeismo e sentimento nazionale.

3. – Il mestiere il Parini se lo formò alla scuola di un’Arcadia rinforzata dal classicismo e toccata già dalla poetica del sensismo, quando scriveva Alcune poesie di Ripano Eupilino con una preoccupazione essenzialmente stilistica e letteraria, tanto da dire nell’Avvertimento: «Voi ci troverete nel presente volumetto componimenti sacri e morali e amorosi e pastorali e pescatorii e piacevoli e satirici e di molte altre guise, i quali, ove di poco valore fossero, colla loro varietà almeno sarannovi di noia minore». Era dunque una formazione retorica venuta su attraverso il petrarchismo, rinnovatrice per le larghe conoscenze dei nostri classici, ma non vivificata da nessun sentimento originale né da un gusto che superasse quello di un abile letterato arcade. Il meglio di quel periodo sta appunto nel classicismo convinto che passerà nel Parini delle Odi e del Giorno. Ma la sua letteratura tendeva ad un campo nuovo di materia da trasformare in poesia e d’altra parte le sue esigenze morali, sviluppatesi a contatto delle nuove correnti ideali, lo spingevano ad occuparsi di cose, di problemi vivi ed inerenti alla realtà e dunque ad aprire alla letteratura come un nuovo territorio inesplorato. Il classicismo del letterato, il sensismo del realista, l’illuminismo del riformatore venivano cosí naturalmente a coincidere. Né l’«Arcadia» coi suoi motivi idillici scompariva, infiltrandosi invece nel nuovo senso del primitivo, del naturale dovuto alla nuova concezione morale di una vita sana e laboriosa. Complessa e compromessa è dunque l’indole della poesia pariniana e ricca di soluzioni letterarie piú che originalmente poetiche.

Nelle Odi il Parini traduce il suo mondo morale quale gli si presentava suggerito da occasioni che vengono sottoposte ai fini di un illuminismo civile e polemico. Occasioni che corrispondono d’altronde al bisogno del poeta di spendersi in singoli concreti problemi: il problema della parità femminile (la Laurea), quello della giustizia preventiva (il Bisogno), quello dell’igiene milanese (la Salubrità dell’aria).

Problemismo e praticismo che danno alle Odi una loro struttura didascalica e un’andatura discorsiva in cui argomenti pratici vengono introdotti nei loro minimi particolari e d’altronde sublimati dalla cura attenta delle parole. La moralità pariniana non è una affermazione estrema, intensa come quella leopardiana ed ha bisogno di una zona civile, di parole tecniche, di circostanze, di discorso insomma. Ed è perciò che l’indole morale e il gusto letterario del Parini lo inducono alla creazione di un discorso poetico, chiaro e sensibile, illuminato e ricco di cose, utile e amalgamato in una sola pasta di stile, che si eleva nei momenti di commozione eccezionale o di abbandono letterario e che conserva una dignità nobilissima nel resto dei componenti. La bravura del Parini è insuperabile e a chi voglia considerare il mestiere, le Odi riservano tesori di finezze e di soluzioni stilistiche. E la gustosità di questo tono che pare vedersi nella sua mitologia, nella sua retorica, forma la grazia piú duratura delle Odi. Il coincidere di saldi intenti morali, ravvivati da un gusto della realtà minutamente, sensisticamente descritta e innalzata a dignità letteraria, da un accorto classicismo oraziano, danno luogo a prodotti di una gustosità eccezionale cui l’ambiente settecentesco, la vena galante, accrescono l’aria preziosa e complessa. Se prendiamo un’Ode come l’Innesto del vaiuolo vediamo, dopo la grandiosità contenutisticamente esagerata del paragone con Colombo, la precisione pittoresca della descrizione del morbo e dei suoi effetti, e in ultimo l’abbandono ad un felice idillio, che invera gli schemi arcadici in un significato rousseauiano e in un senso nuovo, della sanità morale. Ma il gusto di questi residui, la complessità di questi motivi e la continua coscienza di una bonaria compiacenza riflessa dan luogo ad un clima particolare che è il piú costante indice dell’altezza letteraria delle Odi.

A Silvia è in certo senso il capolavoro di questo tono per la decisione del taglio e per la coerenza perfetta del motivo morale che va crescendo dallo spettacolo dei mimi alle atrocità della corruzione muliebre, senza superare mai la misura che gli dà il sorridente rimprovero alla fanciulla e la soave galanteria di quella presenza femminile delicata e pudica.

Né il Messaggio, che può sembrare un abbandono al motivo piú sentimentale, esula da questo mondo misurato e gustoso in cui anche la pensosa serietà di una fine di vita trova una soluzione di grazia e di gusto sorridente e malinconicamente auto-ironico.

La Caduta invece mostra nelle Odi la tendenza piú decisamente morale e innovatrice del Parini e, pur restando nel discorso solito, fa sentire un bisogno piú violento, piú scabro di una coscienza che tende a superare il discorso gustoso e decoroso in un grido di sdegno. E d’altra parte il carattere occasionale e per lo piú encomiastico delle Odi non lascia quasi mai al poeta il puro piacere della descrizione, attento come è ai motivi moralistici dei suoi argomenti.

Questo senso di superiore sdegno morale, non piú legato a particolari occasioni, ma fatto pernio di tutta una polemica, e questo gusto descrittivo settecentesco messo al servizio di una intenzione ironica che per lo piú lo sostiene come senso di grazia e lo solleva da una pesante fotografia, sono pienamente accolti nel Giorno.

Osservava giustamente Domenico Petrini (La poesia e l’arte di G. Parini, Bari, 1930, pag. 123): «La satira fu la via per cui Parini poté affrontare la pienezza di vita di questo mondo che gli si agitava nella fantasia; dalla breve lirica ad un poemetto che permetteva di fermare ogni piú fuggevole aspetto di questo mondo di luce, di grazia, d’amore, il passaggio è precisamente attraverso la satira». Non che la satira resti un pretesto per un puro descrittivismo, ma nell’argomento satirico del poemetto v’era la base per il motivo descrittivo e per la fusione di questa tendenza rococò con lo sdegno morale che solo di tanto in tanto scoppia durante il Giorno. Il quale è dunque da ritenersi, dopo tante oziose discussioni sugli intenti pariniani, come la rappresentazione di un mondo odiato ed amato, di un ambiente che il Parini realizza insuperabilmente e uccide mostrandone la vacuità morale. Se il giovin signore, che è la personificazione piú chiara degli intenti ironici del poeta, e cade perciò nella monotonia e nell’aridità, è colpito dalla moralità pariniana, tutto il mondo che lo circonda è pur sentito come delizioso e gustoso, soprattutto nella sua parte ornamentale e nella galanteria femminile. Ma non v’è perciò un vero dissidio in questa perfetta letteratura: il mondo resta settecentesco e il Parini soddisfa le sue esigenze di letterato e di uomo morale descrivendolo e ironizzandolo contemporaneamente. Ne nasce un movimento di macchiette, di personcine e soprattutto una presenza di oggetti amorosamente elevati ad una rappresentazione artistica classicista e sensista. E ne nasce un tono che gradualmente dalle parole piú pesanti o piú nudamente descrittive sale alla poesia della Vergine cuccia in cui finalmente lo sdegno morale piú alto e la descrizione dell’ambiente settecentesco, piú staccato dal minuto calco delle cose, fanno tutt’uno e animano la piú alta lirica settecentesca italiana.

Nella stessa impostazione del Giorno il motivo dell’ironia e della polemica non è cosi brutalmente pratico come potrebbe sembrare, e il suo grido morale è estremamente settecentesco, non romantico, non tale perciò da provocare una rottura coi modi letterari del Settecento (il richiamo a tutti i lirici nostri, specialmente ai cosiddetti emiliani e a tutta la migliore pittura italiana e francese del Settecento, è in proposito convincente) e da portare l’esigenza di una nuova poesia. Perciò il Leopardi, che viveva, malgrado le sue critiche, in pieno romanticismo, avvertí la mancanza d’una vera passione nel Parini e perciò la sua moralità trova un equilibrio utile con le sue qualità di descrittore settecentesco.

Circa il Giorno, sono stati discussi i problemi dell’unità e del dissidio fra polemica e descrizione: per il secondo noi non troviamo vero contrasto se non nei momenti di piú fiacca ispirazione, in cui la polemica è puramente tale e non agisce da accentuazione ironica della descrizione gustosa. Per il primo problema, se si deve accettare la molteplicità dei motivi e degli atteggiamenti del Giorno, si deve anche insistere sul fatto che esiste un’utilità stilistica e che la parola stile ha per il Parini un’importanza maggiore che per qualunque altro nostro poeta.

E per concludere, è la sopravalutazione del Giorno che fa piú fortemente notare le sue presunte deficienze di fronte ad un ideale poetico piú ampio, ma si giunge a sentirne quel tono come equilibrato e fuso quanto piú lo si accerta come tono di alta letteratura piú che di alta poesia.